Il campo arato

Il punto di vista degli animali

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  1. Farmboy Antonio Bonifati
     
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    Questa favola è opera di fantasia. Ogni riferimento a persone, animali o fatti realmente accaduti è puramente casuale e non intenzionale.

    Questo racconto fa parte della raccolta Il capitale disumano

    C’era una volta uno stormo di uccellini che viveva sugli alberi di una grande tenuta a bassa quota nella Calabria. Per la vicinanza del mare qui l’inverno era mite e gli uccellini riuscivano a sopravvivere senza dover emigrare. Sugli alberi di ulivo non raccolti né potati dall'uomo avevano fatto i loro nidi di rametti intrecciati.

    Ci Cip era l’uccellino più vecchio e il capo dello stormo. Nella sua lunga esperienza, aveva conosciuto i pericoli che, dal momento che i grandi uccelli carnivori come i falchi e le aquile stanno diventando sempre più rari, si trovano soprattutto a terra quando si atterra in cerca di cibo.

    Essendone uscito miracolosamente salvo, ora istruiva i più giovani a stare all’erta e a non fidarsi mai degli altri animali più grandi: i gatti, i cani, la volpe, i serpenti e soprattutto il più furbo e pericoloso di tutti: l’uomo.

    Era una tranquilla giornata di tarda primavera. L’estate era vicina e l’erba più alta nell’uliveto era già secca. Visto dall’alto, il campo sembrava un’impenetrabile barriera dorata, da cui spuntavano le forme contorte degli alberi d’ulivo che terminavano con le loro chiome verde scuro, chiazzate di piccoli fiori biancastri, in netto contrasto col giallo intenso del campo.

    Nel folto dell’erba secca si nascondeva il cibo, ma, diceva Ci Cip:

    «Bisogna stare molto attenti quando ci si avventura là dentro, perché il piatto è ricco quanto il rischio è elevato. I temibili serpenti sono sempre in agguato nell’erba e si muovono di soppiatto, con quella loro spaventosa testa piatta. Con la sottile lingua biforcuta sentono l’odore delle prede e scattano di colpo»

    «Il povero uccellino impacciato dall’erba potrebbe non riuscire ad accorgersi del pericolo e fare in tempo a librarsi in volo, rimanendo così schiacciato dalla potente morsa di quella bocca e dagl’aguzzi denti veleniferi»

    Così Ci Cip istruiva i giovani uccelletti inesperti, che lo ascoltavano ansiosi e stupiti, come se stesse raccontando di incredibili avventure e mostri terribili. Ma niente c’era di fantasia nelle parole del vecchio e saggio volatile, perché quella era la realtà della natura e Ci Cip non raccontava favole: per quanto fosse piacevole ascoltare i suoi racconti, in realtà erano delle lezioni, lezioni di vita, e la sua era a tutti gli effetti una scuola, scuola che insegnava ai nuovi adulti a sopravvivere.

    Avrebbe ora dovuto parlare dei gatti che si arrampicano sugli alberi e minacciano i nidi con le uova o i piccoli, quando improvvisamente si sentì un rombo e un continuo scoppiettio, proveniente dalla strada e sempre più vicino a loro.

    Un mostro più grande di tutti, anche di un uomo e persino di un innocuo cavallo, faceva sempre più rumore e stava per entrare nel campo, fumacchiando da una specie di dritto e sottile tronco verticale una puzza soffocante, peggio delle esalazioni del legno bruciato. Avanzava roteando i suoi grossi piedi neri circolari e la sua dura fronte era a scaglie orizzontali.

    Per rendere la cosa ancora più temibile, sulla sua groppa sedeva un uomo, l’essere più infame della terra, che catturava gli uccellini e li rinchiudeva in gabbia, beandosi della loro ingiusta prigionia, divertito dalla loro sofferenza e dalle grida di soccorso che invano lanciavano verso i compagni liberi.

    Ci Cip, che mai aveva visto una cosa del genere, cinguettò la ritirata generale. Tutti gli uccellini, seguendo il vecchio capo stormo, dagli alberi d’ulivo si librarono in volo e andarono a rifugiarsi sui rami più alti delle querce al confine

    Là erano abbastanza alti, sicché il mostro, che evidentemente pesava tanto e non poteva volare, non avrebbe potuto raggiungerli, ma non troppo lontani da non poter soddisfare la loro curiosità circa le intenzioni di quel goffo mastodonte.

    E in special modo era Ci Cip che voleva sapere qual’era lo scopo di tutto quel baccano. E quello che osservò stavolta lasciò lui stesso stupito: il mostro improvvisamente rallentò, abbassò le sue chele sulla terra – un rullo di luccicanti ruote dentate – e quando riprese a muoversi il rumore si fece ancora più assordante.

    E non solo il rumore… quelle ruote roteanti sembravano scavare nella terra come milioni di aguzzi becchi. Frammentavano gli steli e la paglia secca già schiacciata dalle possenti ruole e facevano schizzare la terra per aria, mentre lo spietato animale percorreva un’irregolare spirale lungo il confine della terra e poi verso l’interno.

    Niente lo poteva fermare, anche le pietre spostava rumorosamente. L’unico ostacolo al suo inesorabile incedere erano i grossi tronchi degli alberi, che lui evitava accuratamente, girandogli intorno.

    E dov’era passato, l’oro della distesa di paglia s’era trasformato nel colore di quella terra rossa. D’improvviso s’alzò il vento, ma il mostro continuò deciso la sua opera di distruzione senza preoccuparsene. Ora dietro di sé lasciava un’alta scia polverosa. Parte della fertile terra di superficie se ne volava via, per fortuna non nella direzione in cui erano appollaiati tutti gli attoniti spettatori pennuti, altrimenti sarebbero stati imbrattati di terra e avrebbero avuto anche difficoltà a respirare.

    Ci Cip aveva capito che a capo di tutto questo c’era l’uomo. Sempre lui era responsabile delle più grandi devastazioni: appiccava incendi, tagliava alberi, uccideva gli uccelli con una canna infernale, che sputava fuoco e pietre a distanza e ora stava addirittura seviziando la terra!

    E senza apparente motivo. Forse il motivo c’era, ma per lui era inesplicabile. All’inizio aveva creduto che quel mostro mangiasse l’erba secca e anche la paglia, macinandola con quegli strani denti della sua orribilmente scarna e ossuta bocca posteriore. Ma che lui sapeva, nessun animale mangia la paglia e poi ancora nessun animale pesta l’erba sotto i piedi e la sporca con la terra prima di mangiarla. Qual’era allora lo scopo di quel cerbero infernale? Boh, tutto rimaneva un mistero, anche per Ci Cip.

    Certo che i loro più acerrimi nemici, i serpenti non sarebbero sopravvisuti. Forse che il mostro mangiava serpenti? Questa sembrava una spiegazione plausibile, ma era troppo lontano per poterla verificare e nemmeno lui, il coraggioso Ci Cip, avrebbe mai osato avvicinarsi a quel mastodonte di cui non gli era chiara la natura. E aveva tutte le sue buone ragioni per sospettare il pericolo.

    Quando tutta la terra fu ridotta in polvere, Ci Cip cominciò a pensare che forse il mostro mangiava le talpe, quei grossi topi che scavano gallerie appena sotto la superficie del terreno, con le loro tozze e forti zampe unghiate, simili a mani umane, e che mangiano tutti gli insetti, vermi e lombrichi che trovano lungo il percorso del loro tunnel. Sapeva infatti che nella natura il piccolo mangia il piccolissimo ed è a sua volta mangiato dal più grande e quest’ultimo dal più grosso.

    Questa è la legge della natura, una legge che potrebbe sembrare cruda e spietata, ma che consente comunque a tutti gli animali di sopravvivere.

    Ma mai prima d’ora Ci Cip aveva visto un animale che per mangiare distruggeva metri e metri quadri di terra senza lasciare manco un filo d’erba. Daccordo, rivoltava la terra per scovare le sue prede, ma poi perché non le inseguiva e continuava a macinare terra finché non aveva lavorato tutto il campo?

    Mistero… mistero che s’infittì ancora di più adesso che il bestione stava andandosene. Era uscito dalla terra e aveva imboccato quella piatta e dura striscia grigia su cui passavano spesso delle specie di grandi chioccie scintillanti con grandi occhi su tutti i lati e uomini dentro che guardano fuori.

    Di queste chiocchie, in realtà molto ma molto più veloci delle lumache, Ci Cip pure non sapeva cosa mangiassero e quale che fosse il loro scopo, anche se da tempo ci avevano fatto l’abitudine a vederle. Aveva supposto che mangiassero gli uomini interi, appunto quelli che v’erano dentro, e che nell’attesa di digerirli se ne andassero a spasso lungo quei loro sentieri, anche perché molti degli uomini che vedeva nelle loro fauci attraverso i grandi occhi sembravano inquieti e sicuramente non avevano affatto una faccia allegra.

    Ma una specie di grande chiocchia veloce che andava sia sui sentieri grigi, sia sulla terra e quand’era sulla terra la rivoltava e polverizzava e per di più con un uomo sopra e non dentro gli occhi, dei quali aveva solo le due paia piccole sul davanti luminose di notte, era proprio un enigma ancora più strano.

    Ma ora se n’era andata, non si sentiva più nemmeno il suo grugnire ed era improbabile che sarebbe tornata o comunque il rumore li avrebbe avvertiti. Quindi Ci Cip prese la decisione di tornare ai loro nidi sui folti ulivi abbandonati, che per fortuna non avevano subito alcun danno

    Tutta l’erba era scomparsa e la terra sotto di loro ora era soffice come sabbia. Adesso qualsiasi predatore sarebbe stato in vista e quindi era sicuro scendere per andare a dare un’occhiata.

    Ci Cip comandò quindi di andare tutti in terra a frugare. Fu una mangiata memorabile: trovarono tante sementi che prima erano in profondità e anche molti di quei vermetti, quelli piccoli di cui si cibano i piccoli uccelli come loro, che evidentemente erano passati indenni tra i grandi denti del mostro. Ma il banchetto non durò che un giorno.

    Il giorno dopo non c’era più niente da mangiare e le uova degli insetti che erano rimaste nel terreno, o erano state fatte precipitare troppo in profondità nel rivoltamento della terra o, mancando l’ombrosità prodotta dall’erba, per mancanza di umidità, non si schiudevano e quindi niente nuovi insetti nati per compensare l’ammanco di quelli che erano stati mangiati.

    Dopo tre giorni gli uccellini furono costretti a migrare in un altro campo per trovare da mangiare, mentre in quello arato tornavano solo per dormire, non potendo spostare i loro nidi perché troppo pesanti.

    Nè andò meglio a tutti gli altri animali: i serpenti che erano nel campo erano riusciti quasi tutti a fuggire prima di essere stritolati da quei mortali artigli roteanti, ma al ritorno, non essendoci più la copertura dell’erba non avrebbero più potuto nascondersi per cacciare gli uccellini e altri piccoli topi o lucertole.

    La talpa dal canto suo aveva ora una terra morbida, come se fosse sabbiosa, ma non poteva scavare le gallerie perché gli sarebbero franate addosso soffocandola e comunque delle prede di cui prevalentemente si cibava, i vermi più grossi, ne erano rimaste poche, in parte uccise dagli artigli metallici del mostro, in parte esposte alla vista dei corvi e altri uccelli più grossi che così le avevano velocemente depredate.

    Basta interrompere un anello della grande catena alimentare affinché si spezzino tutti gli altri. Ora era rimasta solo la terra nuda, arsa dal sole e impoverita delle sue sostante nutritive. Questo era il concetto di ordine e pulizia dell’uomo: il nulla, la morte.

    Così per più di un mese il terreno attorno agli alberi rimase una distesa polverosa e poverissima di vita, sia vegetale sia animale. Ma poi improvvisamente qualcosa cambiò. Grandi nuvole, spinte dal vento vennero dal nord. L’umidità prosciugata del sole ritornava alla terra, per effetto dell’energia del sole stesso. Venne un forte acquazzone, che inzuppò per bene la terra arida di Ci Cip e del suo stormo.

    Già il giorno dopo, semi di piante rimasti sotto la superficie e altre minuscole sementi portate dal vento, approfittarono di quel terreno fresco e molle per spuntare e mettere rapidamente radici. Nel giro di poche settimane l’erba era di nuovo alta e verde. L’ecosistema dei piccoli animali e la complessa catena o piramide alimentare si stava lentamente ricostruendo anello per anello, strato per strato e lo stormo di Ci Cip potè tornare a vivere definitivamente nel suo territorio.

    Del mostro che aveva impoverito la terra era rimasto solo un lontano ricordo nella mente degli spensierati uccelletti che ora, vivendo alla giornata, si godevano le riserve di cibo di un’autunno mite appena iniziato, senza nemmeno pensare all’inverno.

    L’unico che ci pensava era il saggio Ci Cip. E pensava anche al mistero del grosso animale sevizia–terra. Per quanto si sforzasse non riusciva a trovare il bandolo della matassa, la ragion d’essere di quel mostro.

    Non sapeva Ci Cip che per la prima volta dopo tanti anni, per tema degl’incendi, quella grande tenuta dove lui e gli altri uccellini abitavano, era stata lavorata in modo che la terra non si potesse incendiare.

    Infatti dall’altra parte del paese, un automobilista aveva gettato una sigaretta accesa ai lati della strada e tutto un grande terreno confinante con la strada e i suoi alberi erano andati a fuoco. Il fuoco si era poi diffuso sui terreni circostanti coltivati e i vigili del fuoco avevano fatto fatica a domarlo.

    Il proprietario del terreno incolto era stato chiamato ai danni dai vicini. Sapendo di quel disastro, anche il proprietario del terreno incolto di Ci Cip aveva voluto farlo lavorare per cautelarsi contro l’eventualità di incendio.

    La tecnologia dell’uomo serve più che altro a risolvere i problemi che l’uomo stesso crea. L’autocombustione è un fenomeno rarissimo. Occorre una scarica elettrica, un fulmine, che colpisca un albero secco, ma di solito quando ci sono i fulmini piove anche ed è raro che dove il fulmine cada si possa creare un focolaio d’incendio che poi si diffonda a tutta una foresta.

    Ma tutto questo Ci Cip non poteva saperlo. Se l’avesse saputo l’avrebbe certamente capito e ciò avrebbe confermato la sua intuizione che dietro tutti i mali c’era sempre un solo e unico responsabile: l’uomo.

    Intelligente com’era avrebbe detto: non sarebbe bastato tagliare semplicemente l’erba per evitare la propagazione degli incendi senza rovinare l’ecosistema della nostra terra? Della sua tecnologia spesso l’uomo abusa e fa’ più danni che utile.

    Ma per ora Ci Cip e il suo stormo dovevano pensare ad affrontare l’inverno. Già i campi coltivati dalla natura (quelli che gli uomini ingiustamente chiamavano "incolti") rimasti a loro disposizione per sopravvivere scarseggiavano sempre più.

    Se poi il male dell’uomo li avesse colpiti direttamente, che l’avessero capito o no, sarebbero comunque rimasti impotenti di fronte ad esso. Potevano solo sperare che le disgrazie portate dall’uomo non fossero almeno definitive.

    Sull'autore:
    Farmboy è uno scrittore, poeta e musico, nato nel sud Italia nel 1977. Scrive per diletto proprio e pubblica tutte le sue opere gratuitamente sul web. Vive principalmente di agricoltura naturale, dei suoi risparmi e degli occasionali apprezzamenti e donazioni dei suoi ammiratori.

    Edited by Farmboy Antonio Bonifati - 12/7/2017, 21:57
     
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